Quarta Stagione - Episodio 15: "La terapia
Aggiornamento sugli ultimi avvenimenti della famiglia Pearson: - i tre fratelli hanno scoperto che lo zio Nicky, fratello di Jack, è ancora vivo e hanno cercato di riprendere i contatti con lui, un percorso tutt'altro che facile perchè Nicky ha un passato difficile con un Disturbo Post Traumatico importante e che lo ha portato ad essere un eremita alcolizzato che vive all'interno di una roulotte in un bosco. Sarà Kevin a prendere a cuore le sorti dello zio e ad occuparsi di lui. - Kate riesce finalmente ad avere un bambino ma con grandi difficoltà e complicazioni, tanto che il piccolo nasce non vedente. Ma concentriamoci su Randall. Come sappiamo Randall è una persona fragile dal punto di vista psicologico, ha già avuto diversi attacchi di panico in passato verificatosi in gran parte in momenti in cui aveva la sensazione perdere il controllo. Beth conosce molto bene suo marito e ormai ha imparato a riconoscere i segnali di malessere, quando vede che Randall è vicino ad un ulteriore crollo cerca di parlargli e convincerlo a chiedere un aiuto professionale ma lui crede di non aver bisogno di nessuno, la sua terapia è la corsa. Come succede spesso però, ad un certo punto accade qualcosa... nel nostro caso una sera Randall trova in casa sua un malvivente che tiene puntato verso di lui un coltello. Randall ha paura, è terrorizzato ma riesce a tirare fuori quella freddezza necessaria per scacciare l'uomo. Da qui però non riesce più a dormire, non riesce più ed essere tranquillo e continua a controllare le telecamere di sicurezza installate in casa. Inoltre, a Rebecca viene diagnosticato un deficit cognitivo lieve che potrebbe essere solo l'inizio di una ben più temibile patologia: l'Alzheimer. E' Randall a capire che c'è qualcosa che non va nella madre ed è lui a portarla a fare i primi controlli all'insaputa dei fratelli. Randall si fa carico di questo enorme segreto e tutto ciò lo porta sempre più vicino a un crollo psicologico... Così Randall accetta di incontrare una psicologa su consiglio della moglie, ma è scettico e non vuole aprirsi del tutto con lei. La prima seduta è un gioco di ironie e tentativi di smascherare i "trucchetti" usati della psicologa e alla fine dell'incontro Randall se ne va arrabbiato e deciso a non tornare. E' ancora una volta Beth a farlo riflettere e così Randall decide di dare una seconda possibilità alla psicoterapia, capisce che non è di certo con una bacchetta magica che si risolvono le cose, è fondamentale che chi ha bisogno di aiuto si lasci aiutare. In un episodio successivo, incentrato totalmente su una seduta, Randall dice: "Cosa vuole dire? quale è il consiglio che sta cercando di darmi?" e la psicologa risponde: "Sono una terapista, io non offro consigli, offro osservazioni e pongo domande". Parole sante! Spesso le persone si rivolgono a me o a un collega psicologo nella speranza di trovare un consiglio pratico sul da farsi, che bello sarebbe se qualcuno ci dicesse cosa fare... ma non funziona così. Dando consigli lo psicologo si sostituisce al paziente nel prendere le decisioni con il risultato che egli probabilmente tornerà a chiederne di altri, come se lo psicologo fosse un guru o come se fosse un padre o una madre che sa tutto e a cui il bambino si rivolge in cerca di risposte. Il bambino però è indifeso, incapace di muoversi nel mondo da solo in quanto egli dipende dai genitori. Il paziente adulto invece dovrebbe arrivare ad essere in grado di camminare da solo senza continuamente chiedere consigli che generano una dipendenza dal terapeuta. Quindi, lo psicologo è il mezzo che permette al paziente di riflettere su se stesso, su quello che sta accadendo, che lo aiuta a farsi nuove domande e ad aprire nuove prospettive lasciando alla persona la libertà di decidere cosa fare. To be continued... Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta
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Terza Stagione - Episodio 18: "Lei"
Ancora una volta “This is us” si conferma una serie unica, commovente e straordinaria. E’ sorprendente la capacità di questa serie di mettere in luce una varietà di dinamiche pertinenti a tutte le famiglie. Ci insegna la comunicazione, l'intricata danza del matrimonio e soprattutto che nessuna famiglia è perfetta… All'interno del sistema familiare ogni individuo svolge un ruolo specifico e concorre a mantenere un equilibrio. Questi ruoli potranno cambiare nel corso del tempo man mano che si verificheranno sfide trasformative da affrontare. Proprio come ci sono fasi di sviluppo per ogni persona (nascita, infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia.), anche la famiglia ha un ciclo di vita e proprio come ogni fase dello sviluppo ha una "crisi" o una sfida che l'individuo deve superare, ogni famiglia deve affrontare sfide diverse nel corso del tempo. Ad esempio la nascita di un figlio, un trasferimento abitativo, un lutto, una malattia, la perdita del lavoro… sono tutte "sfide" o possibili momenti di "crisi" che richiedono un nuovo adattamento. Ciò che rende speciale “This is us” è proprio l’essere osservatori delle diverse fasi di vita della famiglia Pearson e così nell’ultimo episodio della terza stagione intravediamo Rebecca anziana ed è una scena toccante… Tanto più una famiglia è in grado di superare le sfide e gli ostacoli delle varie fasi di vita (e quelli inaspettati perché – ahimè – la vita è imprevedibili), maggiore sarà il benessere di ogni singolo membro. Le famiglie resilienti, infatti, non sono quelle che scappano dai problemi, che fanno finta di nulla e non li affrontano, ma quelle che trasformano i problemi in opportunità di crescita e i Pearson fanno proprio questo, ci insegnano come ogni difficoltà possa essere affrontata e poi superata attraverso la parola, la comunicazione e l’apertura affettiva all’altro. Nessuna famiglia è perfetta e nessuna relazione è perfetta. La perfezione non esiste! Il segreto sta nell’amarsi l'un l'altro per quello che siamo, sia con le nostre qualità che con i nostri demoni, e fare quella scelta ogni singolo giorno. Randall e Beth sono una perfetta illustrazione di questo concetto, la serie ci fa appassionare alla loro storia d’amore che all’apparenza sembra perfetta, sono belli, ricchi e innamorati, ma nascondono dei demoni, ad esempio gli esaurimenti nervosi di Randall... in questi ultimi episodi assistiamo alla crisi della loro storia, i due sembrano allontanarsi senza poter trovare una soluzione e invece… decidono di stravolgere tutto pur di ritrovare loro stessi e la loro felicità. To be continued... Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta Terza Stagione - Episodio 2: "Scandalo a Philadelphia"
Ho preferito non scrivere nulla rispetto agli ultimi episodi della seconda stagione perché ero in una valle di lacrime XD Finalmente si scopre come è morto Jack, assistiamo al suo struggente funerale, al dolore di Rebecca e di tutti i figli per poi passare al matrimonio di Kate dove la mancanza del padre si fa certamente sentire. All’inizio della terza stagione i fratelli Pearson compiono 38 anni, vediamo come prosegue la vita di Kate, Randall e Kevin e al contempo scopriamo i vissuti dei protagonisti dopo la morte di Jack:
Vorrei prendere spunto da questo episodio e, in particolare, da questa frase per parlare del pensiero controfattuale. Attraverso il pensiero controfattuale cerchiamo di ipotizzare come sarebbe andata la nostra realtà se avessimo preso una decisione diversa, come fa Rebecca chiedendosi: “Se avessimo preso quella casa… forse Jack sarebbe ancora qui con noi”. Il pensiero controfattuale assume la forma di “Se…allora…” e può essere di 2 tipi:
Invece, i controfattuali “upward” forniscono alternative migliori dell’esito e, nell’immediato, inducono insoddisfazione. Se usato correttamente il pensiero upward può aiutare l’individuo ad apprendere dall’esperienza (nell’esempio precedente è possibile che la persona studierà di più al prossimo esame), se invece ci troviamo davanti ad eventi gravi, traumatici e devastanti allora il pensiero controfattuale rischia di diventare una vera tortura in cui si rimane intrappolati. In queste circostanze il pensiero controfattuale amplifica emozioni negative come la rabbia, la vergogna, la tristezza, il rimpianto e il senso di colpa e quindi può giungere a compromettere in modo significativo il benessere psicologico. Se Rebecca si fosse fermata su quella frase e avesse continuato a pensarci allora forse non sarebbe stata in grado di superare quella tragedia e di fare pace con se stessa. Il pensiero controfattuale può trasformarsi in ruminazione, con ripensamenti eccessivi e ossessivi dovuti alla mancata accettazione ed elaborazione dell’accaduto. To be continued... Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta Seconda Stagione - Episodio 9: "Numero due"
Dopo la morte di William la serie continua facendoci scoprire sempre di più il passato della famiglia Pearson. Assistiamo alla crescita dei ragazzi, ai litigi tra i due fratelli maschi che faticano a trovare un’armonia tra loro, alle liti coniugali tra Rebecca e Jack e alla scoperta dei problemi di alcolismo di quest’ultimo. Ogni nuova serie di "This is us" inizia con il compleanno dei fratelli Pearson che, nella seconda stagione, compiono 37 anni. Nel presente Randall decide di seguire le orme dei suoi genitori nel tentativo di ripagare un debito che sente di avere con la vita e così si imbatte nella difficile strada dell’affidamento; Kevin sta vivendo un momento molto difficile perché subisce un incidente al ginocchio sul posto di lavoro e così rivive quello che era accaduto molti anni prima, teme di dover rinunciare anche alla carriera di attore e inizia ad abusare di anestetici; Kate invece scopre di aspettare un bambino. L’episodio intitolato “Numero due” si focalizza proprio su Kate. Quando Kate scopre di essere incinta è incredula e al contempo spaventata. Ha ormai 37 anni e la definisce una “gravidanza geriatrica” per cui a rischio, inoltre il suo peso costituisce un problema ulteriore. Così Kate assume integratori, ci tiene a fare ogni giorno i suoi allenamenti e chiede al compagno, Toby, di non dire a nessuno della gravidanza. Dopo un po’ però predomina la felicità e quindi la coppia decide di annunciare il lieto evento a tutta la famiglia. Purtroppo i timori di Kate si realizzano perché mentre si trova in bagno, a controllare le dimensioni della doccia, la donna si sente male e viene portata in ospedale dove scopre di aver perso il bambino. In sottofondo si sente la dottoressa che dice: “La buona notizia è che sei riuscita a rimanere incinta, significa che già tra 4 settimane potrai riprovarci. Non dovrai sottoporti a raschiamento. Per 5 giorni, massimo 14, potrai avere qualche perdita di sangue ma non c’è nessuna ragione per non tornare a vivere normalmente la tua vita”. Kate è come se fosse distaccata, sente la dottoressa ma al contempo è come se non fosse lì. Nelle ore successive cerca di vivere come se nulla fosse nonostante Toby cerchi di dissuaderla perché incredulo di questo suo atteggiamento. Kate si reca al lavoro, va a una festa e si esibisce come cantante ma mentre esegue un brano vede una bambina con la sua mamma e improvvisamente riaffiora tutto e le viene da piangere. Questa serie ci mostra benissimo come sia importante occuparsi del proprio dolore e come non sia possibile negarlo, ignorarlo o allontanarlo perché tanto lui ritorna prima o poi. C’è bisogno di tempo per elaborare la perdita ed è importantissimo stare in quel dolore per poi poter continuare a vivere. Kate è fortunata perché ha acconto un uomo che farebbe di tutto per lei e che soprattutto è in grado di capirla, le parole di Toby lo dimostrano: “… oggi io sono un uomo con una fidanzata che ha trascorso le ultime ore terribilmente, al momento lei indossa un vestito rosso mentre canta chissà dove così non deve affrontare la sua disperazione e questo mi spezza il cuore… la cosa peggiore è vedere la persona che ami disperata e non poter fare niente per lei…”. Kate prova a sfuggire ai suoi pensieri e alle altre persone, non risponde alle telefonate della madre, si chiude in se stessa e decide di tornare a casa dal lavoro da sola senza avvisare Toby che nel frattempo la cerca ovunque preoccupato. Al rientro a casa i due hanno una discussione: Kate: “Oh mi dispiace, non mi trovavi? Hai passato un po’ di tempo agitato, ti avverto io sarò una macchina ormonale impazzita per settimane mentre il mio corpo penserà ancora di aspettare un bambino”. Esce tutta la rabbia di Kate. Toby: “Noi non abbiamo perso il bambino perché avevamo delle speranze, a volte accade”. Kate: “E’ a me che è accaduto e farai meglio a non dimenticarlo”. Toby: “Stamattina ho aperto gli occhi e non mi ricordavo cosa era accaduto, ti ho guardato e ho pensato -Wow, avremo il nostro bambino- ma all'improvviso la mia mente ha ricordato allora mi sono alzato dal letto cercando di non fare rumore sperando che anche tu potessi averlo dimenticato, eri lì che dormivi beata. In questa storia io sarò il tuo sostegno, ti accarezzerò i capelli e terrò la tua testa tra le mie braccia e ti ripeterò fino allo sfinimento che tutto andrà per il meglio ma una cosa non posso accettare: negare che fossi al tuo fianco e che abbia sofferto con te anche se ammetto che il mio corpo non era coinvolto. Non ha ferite addosso il mio corpo, lo so questo come so che non potrò mai capirti abbastanza e anche se il mio ruolo prevede che io sia forte, sono devastato esattamente come te… e fa male Kate”. Che dire? Bellissimo discorso che esprime due concetti a mio parere fondamentali:
Questo episodio mette anche in mostra il difficile rapporto tra Kate e sua madre. Fin da piccola si è dovuta confrontare con un’ideale di donna molto elevato: bella, affascinate, solare, con una voce invidiabile e questo ha messo a dura prova la crescita di Kate che si è sempre vista grassa e una cantante mediocre a confronto. Anche qui c’è un discorso bellissimo, Rebecca dice alla piccola Kate: “Mia madre era severa, lei era come una porta di acciaio sbarrata e anche quando trovavo uno spiraglio si apriva su una stanza piena di chiodi. Se volevo una figlia è perché speravo di comportarmi diversamente da lei…”. Kate prova a dire qualcosa ma viene interrotta: “No, non è compito tuo farmi stare meglio, spetta a me questo compito (!). E’ compito mio dover restare lì con le braccia spalancate e pronte ad accoglierti quando magari un giorno tu possa averne bisogno…”. Così si vede Rebecca che corre da sua figlia Kate adulta, che ha appena perso il bambino, e la consola anche se non era stata chiamata, lei è lì per sua figlia. To be continued... Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta Prima Stagione - Episodio 17: "E adesso"
Che dire di questi ultimi 2 episodi di “This is us”?! Fantastici, commoventi, si riesce a stento a contenere le lacrime… Nell’episodio 16, “Memphis”, purtroppo viene a mancare William, il padre biologico di Randall, malato da tempo di tumore. I due decidono di fare un ultimo giro in macchina insieme e sarà il modo per salutarsi, vivere un’esperienza unica e per William sarà l’occasione per chiudere alcune cose che aveva in sospeso. E’ bellissimo come, pur consapevole della sua condizione, William non si butti giù di morale ma decida di vivere al massimo gli ultimi giorni. Inoltre è geniale come l’autore della serie riesca a mostrare la bellezza e al contempo la fugacità della vita umana attraverso il gioco dei “salti temporali” e così vedremo William piccolino nelle braccia della sua mamma che gli canta “You Are My Sunshine” e al contempo William anziano che ricanta sottovoce la stessa canzone. Nell’episodio 17, invece, si assiste all'elogio funebre di William e tutta la famiglia Pearson si riunisce. Non vuole essere un momento triste ma una grande festa, queste sono le sue ultime volontà. Mi ha molto colpito una conversazione che avviene tra Kate e Randall. Kate fa fatica ad ascoltare le parole di addio espresse dalla moglie di Randall per William e quindi esce di casa in lacrime. Randall la segue, i due si abbracciano e Kate dice: “Mi dispiace, so che dovrei essere io a confortarti… nel centro per dimagrire ho imparato ad aprirmi, tutta quella terapia sta facendo riaffiorare tutte le cose che riguardano papà… mi dispiace tu abbia dovuto passarci di nuovo” (Eh già!). Randall: “Ehi, va tutto bene, ieri notte ho sognato che papà e William si incontravano […]. Non sono bravo a dirti come gestire i tuoi sentimenti ma so solo che esprimerli è fondamentale…”. Ecco che in un paio di frasi “This is us” racchiude il cuore della psicoterapia. Sigmund Freud diceva: "Le emozioni inespresse non moriranno mai. Sono sepolte vive e usciranno più avanti in un modo peggiore." Negare quello che si prova, allontanare le emozioni non è mai la scelta migliore, può essere una soluzione momentanea, ma poi nel lungo periodo se ne pagano le conseguenze. Reprimere le emozioni che ci fanno male non significa farle sparire. Quindi ascoltiamo le emozioni e impariamo a riconoscerle! Spesso è proprio questo che si fa nella stanza di psicoterapia, aiutare la persona ad entrare in contatto con le proprie emozioni, dare un nome a quello che si prova, capire l’utilità di quella emozione per poi individuare il modo migliore per gestirla. Ho sempre pensato che nella nostra società non si dia abbastanza valore alla domanda “Come stai?”, io penso che sia qualcosa di importantissimo da chiedere alle altre persone… certo non parlo del “Come stai?” detto per convenienza ma quello detto con il cuore. “Come stai?” non è solo una semplice domanda, se fatta con l’obiettivo di entrare in contatto autentico con l’altra persona, diventa un punto di partenza per parlare di emozioni, sentimenti e affettività, può essere la chiave d’accesso per il mondo emotivo dell’altro. To be continued... Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta Prima Stagione - Episodio 9: "La gita"
Rebecca non ha mai raccontato a suo figlio Randall di aver conosciuto William, il suo papà biologico. Rebecca si è inoltre opposta alla richiesta di William di poter vedere suo figlio perché troppo spaventata dall'idea di perderlo. Così il piccolo Randall è cresciuto chiedendosi chi fossero i suoi veri genitori, perché l’avessero abbandonato e sentendosi “spaccato a metà” (come dirà in un episodio successivo). Nei vari episodi si vede che Randall cerca di ritrovare le sue origini, ad esempio ha un’agendina sulla quale disegna una stanghetta per ogni persona di colore incontrata, chiedendosi se una di quelle possa essere suo padre o sua madre oppure, in un altro episodio, ferma la gente nel supermercato per chiedere di piegare la lingua perchè: “A scuola abbiamo studiato i tratti ereditari e piegare la lingua è uno di quelli, se trovo persone che sanno farlo allora forse trovo i miei veri genitori”. Randall è stato amato dalla sua famiglia adottiva ma ha sempre sentito un vuoto dentro di sé e, infatti, alla veneranda età di 36 anni ha finalmente deciso di cercare e incontrare il suo vero padre, completando così i tasselli del puzzle. Purtroppo però, durante una cena di ringraziamento, Randall scopre che sua madre adottiva e suo padre biologico si conoscevano fin dalla sua nascita e questo lo fa arrabbiare perché si sente tradito. In questo episodio Randall beve accidentalmente un frullato un po’ particolare, contenente funghetti allucinogeni e ha un dialogo (interiore) con il suo papà adottivo Jack. Dice: “E’ da tutta la vita che lotto per riuscire ad essere perfetto e sai quale è la ragione? Vivo nella paura perché se mollassi un solo momento ricorderei che nessuno mi ha mai voluto… Sapere che l’uomo che mi aveva abbandonato mi voleva di nuovo e che si era pentito, capisci per me che differenza avrebbe fatto?!”. Il saggio Randall poi aggiunge che probabilmente anche Rebecca sta soffrendo infatti la scena successiva ci aiuta a capire il vissuto di Rebecca. Siamo nel passato e la donna va ad incontrare William informandolo che il figlio chiede continuamente di lui ma poi non riesce a contenere il dolore e scappa… poi parlando con Jack dice: “E se fossero persone eccezionali? Se si fossero pentiti di averlo abbandonato e lo rivolessero indietro? I suoi genitori potrebbero recriminare dei diritti e non permetterò a nessuno di portarmelo via!”. Il dolore di una madre adottiva e il vuoto di un bambino adottato… Come finirà? Beh guardate l’episodio! =D Ancora una volta prendo spunto da un episodio di “This is us” per approfondire un tema importante, quello dell’adozione, focalizzandomi in particolar modo sul vissuto psicologico dal bambino che verrà adottato. Cos'è l’adozione? È l’incontro tra un bambino dichiarato in stato di abbandono ed una famiglia valutata idonea all'adozione, i quali costituiscono due mondi diversi che entrano in rapporto tra di loro con un vissuto psicologico complesso. L’abbandono può essere:
Crescendo il bambino adottato guarderà il proprio corpo e quello dei suoi genitori adottivi, cercherà le somiglianze e le differenze fisiche e mentali esistenti tra loro, farà dei confronti e si interrogherà sull'aspetto fisico dei propri genitori biologici, cercherà dei modelli adulti con i quali identificarsi anche sulla base dell'aspetto fisico. Ci sarà sempre il fantasma dei genitori naturali... A tutto ciò si aggiunge il grande interrogativo: "Perchè sono stato abbandonato?" e se al bambino non viene fornita una risposta potrà sviluppare sensi di colpa e convincersi di essere lui la causa dell'abbandono, forse non era abbastanza per quel genitore, sviluppando così un enorme senso di inadeguatezza. La costruzione dell'identità del bambino adottato si basa su una doppia appartenenza e necessita di trovare un equilibrio nel continuum tra famiglia di origine e famiglia adottiva. La famiglia adottiva rappresenterà il contesto stabile e affettivo che consentirà al bambino di affrontare questo processo di costruzione dell'identità. Il trauma dell’abbandono può rimanere nascosto nella psiche per anni (se il bambino non viene aiutato adeguatamente) per esplodere poi in modo difficilmente controllabile, spesso in adolescenza. E’ in questa fase infatti che si avvia il processo di individuazione e separazione che si esprime nella domanda fondamentale: “Chi sono io?”. L’adolescente ha bisogno di risposte, ha bisogno di capire le sue origini per poter in seguito trovare se stesso e riempire il vuoto interno. In sintesi:
In conclusione, sicuramente i bambini e i ragazzi adottivi devono affrontare maggiori difficoltà nelle varie fasi di vita rispetto ai coetanei non adottati, tuttavia ciò non impedisce di vivere serenamente quando vi è sempre stata chiarezza in merito alla storia adottiva ed alle origini, ma specialmente se si è venuto ad instaurare un rapporto solido e positivo con i genitori adottivi. To be continued... Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta Premessa:
Poco tempo fa ho iniziato a vedere "This is us", serie tv di cui mi sono da subito innamorata. Ho pensato di inserirla nel mio blog perchè nei vari episodi emergono temi molto interessanti da cui prenderò spunto per fare alcune riflessioni psicologiche. "This is us" racconta la storia della famiglia Pearson, famiglia composta da cinque elementi:
La serie è veramente intrigante e ben costruita attraverso la tecnica dei "salti temporali", così nella prima puntata per esempio vedremo Rebecca in procinto di partorire e contemporaneamente i 3 figli che compiono tutti 36 anni essendo gemelli o quasi. Ogni episodio invoglierà ad andare avanti per ricomporre i tasselli che formano il grande puzzle della famiglia Pearson. "This is us" è una serie che vi farà emozionare, vi ritroverete a ridere e a piangere con i vari personaggi e chissà che qualche riflessione fatta qui non possa anche aiutarvi nella vostra vita... la storia dei Pearson può essere la storia di ognuno di noi... <3 Prima Stagione - Episodio 3: "Kyle" Rebecca ha dovuto affrontare una gravidanza gemellare a rischio e al momento del parto purtroppo sono sopraggiunte delle complicazioni e così il terzo gemello non ce l'ha fatta. Lo stesso giorno però in ospedale arriva un neonato, abbandonato poco prima davanti alla stazione dei vigili del fuoco e così, come un segno mandato dal cielo, Jack e Rebecca decidono di adottarlo e portare a casa 3 bambini come era previsto. I genitori avevano anche già pensato ai nomi, tutti avrebbero avuto un nome che iniziasse con la lettera K: Kevin, Kate e Kyle. Per Rebecca la decisione di adottare un bambino che non ha portato nella sua pancia non è affatto semplice e, come spesso accade in queste circostanze, fa fatica a sentirlo suo. Dice: "Lui non è come gli altri, mi dispiace ma io ho cresciuto gli altri due dentro di me e lui è come se fosse un estraneo... mi sento un mostro a dirlo ad alta voce ma è la verità". Rebecca è un mostro? Assolutamente NO, è una donna che ha vissuto un lutto e non lo ha ancora elaborato. Jack nota la fatica che sta facendo sua moglie e durante la visita dal medico dice: "Credo che i bambini abbiano fatto a pezzi mia moglie, ma lei può curarla vero?". Il dottore saggiamente risponde: "Tua moglie ha perso un bambino e non è una cosa che puoi ignorare! Tu hai preso il tuo dolore e lo hai trasformato in azione ma Rebecca ha bisogno di affrontare la cosa a modo suo e tu dovrai lasciarle lo spazio per trovare il suo modo". All'uscita dell'ospedale, dopo il parto, Rebecca nota un uomo di colore che la osserva tenere in braccio i suoi bambini, lei intuisce chi possa essere: il padre biologico del bambino che lei ha adottato. Nei giorni successivi non riesce a dimenticarlo finchè decide di andarlo a cercare e così conosce William ed è proprio parlando con lui che riuscirà a trovare un pò di pace e ad entrare in contatto con il terzo bambino. William le chiede: "Che nome avete dato al bambino?" e Rebecca risponde: "Kyle" e poi gli spiega di aver perso il terzo gemello e di averlo "sostituito" con un altro. Aggiunge in lacrime: "Io non riesco a legare con il bambino, io vorrei amarlo come se fosse mio ma ogni volta che guardo il suo viso..." e allora William le dice: "Dagli un nome suo!" e così entra in scena Randall. Alla fine dell'episodio si assiste a questa magnifica scena in cui Rebecca prende in braccio il piccolo Randall e prova ad attaccarlo al seno e finalmente ci riesce. Vorrei partire da qui per fare una riflessione sui nomi che vengono dati ai bambini. Quante volte una persona porta il nome dello zio defunto, del nonno o del bambino mai nato? e questo può essere un peso enorme da sopportare. Succedeva più di frequente in passato, ma non è raro incontrare lo stesso meccanismo anche oggi. In "This is us" il nome bloccava l'elaborazione del lutto perchè ogni volta che i genitori chiamavano quel bambino si ricordavano inevitabilmente del figlio deceduto scatenando in loro sentimenti di colpa. Quindi, a volte, Il nome che viene dato a un nuovo nato è troppo carico di proiezioni genitoriali, di un peso che non spetterebbe a lui portare e che però si porterà dietro per tutta la vita, a volte senza neanche sapere la verità, ma come si dice spesso in psicologia: "Il non detto si sente". Così c'è il rischio che si ripetano traumi, che vengano date missioni inconsce a quel bambino e poi adulto, che lo si veda come quello che deve aggiustare, riparare le cose ma non è corretto perchè diventa una sorta di maledizione. Ogni bambino che nasce è unico e deve avere il diritto di portare un nome che sia esclusivamente suo. To be continued... Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta
Oggi vi parlo di un film che colpisce lo spettatore e lo tiene con il fiato sospeso fino alla fine.
Tutta la trama gira intorno a un protagonista misterioso, interpretato da Valerio Mastrandrea. Si tratta di un uomo che ogni giorno troviamo seduto in un bar, sempre lo stesso locale, sempre lo stesso posto e con una grande agenda davanti a sè che ogni tanto consulta e sulla quale prende appunti. Al suo tavolo si siedono delle persone che parlano con lui, gli chiedono consiglio e dopo poco se ne vanno. Qui si infittisce il mistero perchè lo spettatore inizia a chiedersi, sempre più insistentemente, chi sia quell'uomo... forse uno psicologo? un medium? Dio? Davanti a lui si siedono persone diverse, tutte esprimono un desiderio e l'uomo misterioso chiede in cambio qualcosa, chiede loro di fare qualcosa... Così conosciamo:
Piano piano capiamo che le storie dei protagonisti sono tutte intrecciate. Le richieste dell'uomo sono estreme, siamo disposti a far del male alle altre persone pur di soddisfare la nostra felicità? Allo spettatore viene chiesto di immedesimarsi con le vite altrui, senza pregiudizio. Non gli si chiede, però, di giustificare, di accettare ciò che i “mostri” (così definiti dalle parole dell’Uomo) arrivano a fare; lo si invita a empatizzare, ad accettare l’essere umano per quello che è, per quello che può arrivare a fare. Il film come la psicoterapia... L'uomo misterioso è un personaggio di cui non si sa nulla, un uomo senza storia e senza passato, senza memoria e senza desiderio (Bion), è quindi come uno psicoanalista. Lo psicoanalista ascolta, non dà soluzioni, ma aiuta i suoi pazienti a fare un viaggio nella parti più nascoste di sè, si potrebbe parlare di Es in termini freudiani, a vedere e parlare con il proprio lato oscuro o non conosciuto, l'inconscio, a confrontarsi con le proprie frustrazioni e a cercare nuove soluzioni per i propri desideri. Come nella psicoterapia, lo scopo del film è quello di portare le persone a capire, spesso attraverso sofferenze, angosce e difficoltà, cosa vogliono davvero dalla loro vita, a fare una scelta autentica, propria, liberi dalla obbligatorietà di decisioni etero dirette. Conoscere queste parti di sè non è un male perchè poi ci rimane il libero arbitrio, come ci insegna bene il regista, la possibilità di scegliere e agire. Prevarrà l'Es, l'istinto primoridiale? Oppure c'è un Io sufficientemente solido e integrato che sarà in grado di trovare soluzioni alternative? Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta
Il film "Gifted" mi permette di parlare un pò dei bambini PlusDotati.
Mary (Mckenna Grace) è una bambina estremamente intelligente e con un talento speciale per la matematica. Vive con lo zio Frank (Chris Evans) perché la madre è morta suicida qualche tempo prima. Anche la mamma di Mary era una donna estremamente intelligente e, prima della sua morte, ha fatto promettere al fratello di crescere sua figlia come una bambina “normale”. Inizialmente Frank riesce in questo intento ma ad un certo punto si accorge che Mary non può studiare solo a casa perché le sue capacità sociali ne risentono e così decide di iscriverla a scuola. Mary spicca tra i suoi compagni che stanno imparando a fare 2+2, lei è già in grado di eseguire calcoli complicatissimi e le sue capacità non possono passare inosservate soprattutto alla nonna materna Evelyn. La donna, una ricca ed elegante signora, ha piani molto diversi per la piccola Mary e da qui parte la lotta per l'affido della piccola... È un film molto commovente e che mostra tutta la complessità di questi bambini. Chi sono i bambini PlusDotati? Con il termine ‘plusdotato’ si identifica un individuo che, rispetto ai pari, mostra (o ha il potenziale per mostrare) un’abilità sorprendente in un determinato momento e in specifiche aree considerate di rilievo nella propria cultura di appartenenza. Questi bambini, chiamati “gifted” in inglese, possono rientrare in 3 categorie:
La plusdotazione implica anche alcuni aspetti emotivi importanti che il bambino deve essere aiutato a gestire per non sviluppare sofferenza o patologia, da qui si evince l’importanza del contesto sociale/famigliare in cui il bambino è inserito. In particolare può essere presente:
Avere una plusdotazione intellettiva non è necessariamente garanzia di prestazioni scolastiche elevate o, in generale, di successo nella vita. Come già sottolineato, è molto importante che il contesto sappia accogliere e gestire il bambino plusdotato al fine di coltivare e far emergere le sue capacità. Un bambino plusdotato non individuato e aiutato potrebbe apparire come un bambino che disturba e/o è provocatorio a scuola perché in realtà si annoia oppure come un bambino chiuso, ritirato perché in realtà demotivato. “I genitori devono essere affidabili, non perfetti… I figli devono essere felici, non farci felici” Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoteraputa
Nel film "Cake" Jennifer Aniston interpreta Claire, una malata cronica, un ruolo molto diverso da quelli a cui l'attrice ci ha abituati: "imbruttita", sciatta nell'abbigliamento, appesantita nel fisico e nell'anima. La conferma della bravura di questa straordinaria attrice.
Claire è una donna divorziata che vive da sola e viene aiutata nelle faccende quotidiane dalla sua domestica messicana Silvana (Adriana Barraza), della cui natura premurosa si approfitta spudoratamente. Claire frequenta un gruppo di supporto a causa del suo passato difficile. Il film non fa subito capire cosa è capitato alla donna, lo si scoprirà solo nel corso dei minuti e il film percorre le varie fasi dell'elaborazione del trauma, dal grandissimo malessere iniziale, alla depressione e l'autodistruzione intermedia fino ad arrivare alla sua elaborazione con la conseguente rinascita. Claire ha brutte cicatrici sul viso, non riesce ad andare in macchina "normalmente" ma deve sedersi sul sedile accanto al guidatore in posizione totalmente sdraiata, in modo da non vedere la strada, e ha dolori cronici. Si rifiuta di collaborare con il suo fisioterapista ed è totalmente dipendente dai farmaci, insomma sembra non essere interessata a migliorare e desiderosa soltanto di porre fine alla sua vita. Nel frattempo il suo gruppo di supporto è scioccato per aver appena perso un membro, Nina (Anna Kendricks), morta suicida e dopo un commento sarcastico, Claire viene allontanata e invitata a cercare un nuovo gruppo. A quel punto Claire vuole capire meglio cosa è accaduto a Nina, la quale perseguita i suoi incubi, e così rintraccia il marito, Roy (Sam Worthington) e ne conosce anche il figlio. I due stringono amicizia arrivando a trovare reciproco conforto nella condivisione delle loro esperienze traumatiche. Perchè "Cake"? La ricerca di un senso alla vita da parte di Claire ben si riassume nella “torta”, "Cake" appunto. Da elemento apparentemente marginale essa finisce per simboleggiare la rinascita della protagonista, che capisce di dover rivolgere nuovamente gli occhi alle piccole cose quotidiane, e da lì ripartire per rammendare i brandelli della propria vita. Il dolore cronico è definito come "il dolore fisico che si protrae oltre i tempi normali di guarigione di una lesione o di un’infiammazione e che perdura per anni” (da "Fondazione ISAL"). Il dolore cronico è stato riconosciuto come una vera e propria patologia in sé per le conseguenze invalidanti che comporta per la persona che ne soffre, dal punto di vista fisico, psichico e socio-relazionale; esso infatti compromette qualsiasi attività quotidiana generando depressione, senso di sfiducia e malessere. Il dolore cronico spesso non permette a una persona di impegnarsi in attività sociali, non se ne ha la forza e di conseguenza le relazioni possono cambiare o svanire. Ciò significa che al dolore cronico (fisico) si può aggiungere un ulteriore dolore chiamato "dolore sociale", un dolore psicologico causato dalla disconnessione o dal rifiuto sociale. Le persone con dolore cronico spesso sperimentano isolamento e perdita dolorosa delle relazioni. Nel film Claire ha perso tutte le persone care e viene cacciata anche dal gruppo a causa delle sue modalità sgarbate e piene di rabbia che sono una conseguenza del suo dolore cronico. Alcuni consigli per ridurre il dolore sociale se si è affetti da dolore cronico:
Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta
Un film emozionante, intrigante e molto criticato... da vedere assolutamente!
"Il libro di Henry" racconta la storia di un ragazzino di 11 anni straordinariamente intelligente, acuto, sensibile e (fin troppo) maturo di nome Henry Carpenter (Jaeden Lieberher), che si prende cura sia del suo fratellino Peter (Jacob Tremblay) sia di sua madre Susan (Naomi Watts). E' lui che si occupa di gestire i conti in casa, di risolvere tutte le problematiche ed è anche un bravo inventore. Henry è dotato anche di ottime capacità osservative e infatti scopre che una sua compagna di classe e vicina di casa, subisce degli abusi da parte del patrigno Glenn Sickelman. Nonostante i suoi diversi tentativi di denuncia ai servizi sociali e le richieste di intervento alla preside della scuola, Henry non riesce ad aiutare la compagna perchè il padre è un commissario di polizia e, in quanto tale, è intoccabile. Nessuno vuole mettersi contro di lui. A questo punto Henry inizia a progettare un piano complesso per uccidere l'uomo e scrive tutto nel suo libro rosso. Mentre studia il suo piano nei minimi dettagli, Henry si sente poco bene e viene ricoverato in ospedale dove gli viene diagnosticato un tumore al cervello. Henry, da grande studioso e ragazzino sveglissimo, capisce che la sua situazione è grave e che gli rimangono pochi giorni di vita. Al fratellino dice: "Dopo che non ci sarò più dì alla mamma di leggere il mio libro rosso, deve leggerlo solo lei, non tu". E così, dopo la sua morte, il compito di salvare la ragazzina spetta alla madre che viene guidata dalle parole del figlio tramite audiocassette. Come finirà? A voi il compito di scoprirlo. Il film è stato molto criticato, ma a me non interessano le critiche ma le emozioni e questo film mi ha emozionata nel toccare alcune tematiche. Nel film c'è una frase molto bella e significativa, Henry parla con la madre e le dice: "La violenza non è la cosa peggiore del mondo", la madre gli chiede quale sia e lui dice: "L'apatia". L'apatia è la conseguenza dell'abuso, delle violenze ripetute che spengono l'anima delle persone, è questo che Henry nota nella compagna: non mangia, non ride, non parla, sembra persa... Nel film, inoltre, si coglie benissimo il tema dell'inversione di ruoli (madre-figlio). In una scena la madre gioca alla playstation e il figlio rincasando le dice di spegnere e andare a letto, lei temporeggia perchè deve uccidere l'ultimo mostro (!). Chi di noi non ha vissuto questa situazione? Ma sicuramente è stata vostra madre o vostro padre a richiamarvi, non viceversa! L'adulto dovrebbe avere una maturità tale da fungere da guida per il figlio, maturità che Susan non sembra avere. Ecco che quindi la morte di Henry la mette duramente a confronto con i suoi limiti, è costretta a fare i conti con la sua mancanza di autonomia e, piano piano, passa dal non saper pensare senza il figlio a liberarsi dalla dipendenza da lui. Alla fine la madre capisce che in fondo Henry è solo un bambino. Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e psicoterapeuta
Sapete che le fiabe che vi hanno raccontato da piccoli hanno un lato oscuro?! Siete sicuri di conoscere la vera storia?
... Oggi voglio fare un piccolo cambio di rotta parlandovi non di un film ma di uno dei più famosi cartoni animati firmati Disney: “La bella addormentata nel bosco”. Il film prende spunto dalla fiaba di Charles Perrault tratta da “I racconti di mamma oca”. In breve, un Re e una Regina hanno una figlia e al momento del battesimo una vecchia fata non viene invitata. Questa, indispettita, scaglia una maledizione contro la bambina: prima di compiere i sedici anni, la Principessa si sarebbe punta toccando un fuso e sarebbe morta. Ma una fata buona attenua il maleficio tramutando la morte in sonno profondo, dal quale la ragazza avrebbe potuto svegliarsi grazie al primo bacio d’amore. Così avviene. E' più o meno la storia che tutti noi conosciamo, ma la versione originaria non è questa. La prima versione de "La bella addormentata nel bosco" si intitola "Sole, Luna e Talia" ed è di Giambattista Basile, scritta nel 1634. La versione originaria è molto più crudele e poco adatta ai bambini. "C'era una volta un gran signore, che avendo avuto un figlia chiamata Talia, fece venire gli indovini del suo regno per predirle il futuro. Quelli conclusero che la fanciulla avrebbe corso un gran pericolo a causa di una lisca di lino; per quel motivo il Re proibì che in casa sua entrassero lino o canapa o altre cose simili. Ma essendo Talia ormai grandicella, stando affacciata alla finestra, vide passare una vecchia che filava e incuriosita fece salire la donna. Giocando con la rocca, disgraziatamente una lisca di lino le entrò nell'unghia e Talia cadde morta a terra. Il padre, vedendo la figlia, scoppiò in lacrime e decise di far deporre la giovane nel palazzo, chiuse le porte e lasciò per sempre quel luogo. Dopo qualche tempo, a un Re che andava a caccia scappò via un falcone che volò in una delle finestre della casa e fece bussare al portone credendo che ci abitasse qualcuno. Non avendo risposta, il Re si fece portare una scala e si arrampicò lui stesso nel castello. Giunse nella camera dove giaceva Talia, avvolta dall'incantesimo: il Re, appena la vide la chiamò, credendo che stesse dormendo. Visto che la fanciulla non si svegliava, accecato e infiammato dalle sue debolezza la portò in braccio fino a un letto e lì colse i frutti dell'amore (modo carino per dire che la stuprò!); poi la lasciò coricata e se ne tornò nel suo regno, dove per molto tempo non si ricordò di quello che era successo. La fanciulla dopo 9 mesi partorì 2 creaturine, un maschio e una femmina, i quali vennero curati da due fate apparse nel palazzo e attaccati ai seni della mamma. I 2 neonati, che volevano succhiare e non riuscivano a trovare il capezzolo, le afferrarono il dito e succhiarono tanto che fecero uscir fuori la lisca di lino. Sembrò a Talia di svegliarsi da un gran sonno e, visti i due gioielli accanto a lei, se li mise ai seni e li tenne cari come la vita. Mentre Talia ignorava cosa le fosse capitato, il Re, ricordandosi della fanciulla, con la scusa di andare a caccia andò a cercarla: trovandola sveglia e con i bambini, ne ebbe un piacere enorme. Raccontò l'accaduto a Talia e strinsero un legame sincero. Poi, salutandola con la promessa di portarla con sè, tornò al suo regno, nominando Talia e i figli in tutte le occasioni: se mangiava aveva in bocca Talia, Sole e Luna, così aveva chiamato i figli. La moglie del Re, che aveva avuto qualche sospetto, si prese la febbre. Quindi, chiamato il segretario, gli chiese di raccontarle la verità. L'uomo, sotto la minaccia della vita, le raccontò tutto. La Regina allora mandò lo stesso segretario da Talia, a nome del Re, per dirle che voleva vedere i figli. Lei li mandò con grande gioia e invece quella comandò al cuoco di sgozzarli e, dopo averne fatto diversi piatti, di farli mangiare al povero marito. Il cuoco, che era tenero di cuore, visti i due bambini ne ebbe compassione e affidandoli a sua moglie perchè li nascondesse preparò al loro posto due caprettini in cento salse diverse. Arrivato il Re, la Regina con grande piacere fece portare il cibo. Il Re mangiò con gusto mentre la Regina diceva: "Mangia, chè mangi del tuo!". Dopo un pò il Re si scocciò e se ne andò infuriato. Nel frattempo la Regina chiamò ancora il segretario e fece convocare Talia. Quando si presentò davanti alla Regina questa tutta inviperita le disse: "Sii la benvenuta Troietta. Tu sei quello straccio di lusso, quella malerba che si gode mio marito! Tu sei quella cagnaccia che mi fa avere tanti pensieri per la testa? Bene sei arrivata al purgatorio dove ti farò pagare il danno che mi hai procurato!". Sentendo questo, Talia cominciò a scusarsi dicendo che non era stata colpa sua e che il marito aveva preso possesso del suo paesino mentre lei era addormentata. Ma la Regina fece accendere nel cortile del palazzo un grande rogo e ordinò di sbattercela dentro. Talia si inginocchiò e la pregò che almeno le desse il tempo necessario per spogliarsi dei vestiti che aveva addosso. La Regina, solo per accaparrarsi gli abiti ricamati d'oro, glielo concesse. Mentre Talia si spogliava arrivò il Re e visto quello spettacolo volle sapere cosa stesse succedendo: quando chiese dei figli si sentì rispondere dalla stessa moglie che glieli aveva fatti ingoiare. A quelle parole il Re ordinò che la Regina fosse buttata nello stesso fuoco acceso per Talia e, con lei, anche il segretario che l'aveva aiutata; e mentre stava per fare lo stesso con il cuoco quello si gettò ai piedi del Re e gli raccontò la verità. Nel sentire quelle parole al Re sembrò di sognare e promise al cuoco di ripagarlo adeguatamente. Intanto la moglie del cuoco portò Luna e Sole davanti al padre il quale faceva un girotondo di baci ora con l'uno, ora con l'altro. Dopo aver nominato il cuoco suo gentiluomo di camera, prese Talia per moglie e lei godette una lunga vita con il marito e i figli, accorgendosi con tutte le prove che chi ha fortuna anche quando dorme gli piove in testa il bene!" The End! Ora vi propongo una possibile interpretazione psicoanalitica della storia "La bella addormentata nel bosco" così come la conosciamo (non nella versione originaria). Secondo l’interpretazione psicanalitica di Bettelheim, la fiaba sottolinea come il percorso della crescita sia difficoltoso. Nella storia la Principessa viene punta da un fuso e quando fuoriesce la prima goccia di sangue essa cade in un sonno profondo. Questo avviene quando la giovane ha 15 anni. La prima goccia di sangue può rappresentare la metafora dell'inizio del ciclo mestruale che comporta l'ingresso nella pubertà, la chiusura di un ciclo di vita e l'inizio di un altro. A quel punto la morte della Principessa è una morte simbolica perchè muore la bambina e nasce l'adolescente. La pubertà è un momento di cambiamenti fisici ed emotivi importanti, un periodo di scombussolamento che però, come la storia dimostra, non durerà per sempre. Inoltre, il sonno della Principessa potrebbe rappresentare il pericolo di isolamento che l’adolescente corre quando percepisce la propria vulnerabilità e ha paura di crescere. La pubertà è il periodo in cui ogni giovane si chiude in sè alla ricerca della propria individualità ed è solo il bacio di un Principe che potrà portare a un risveglio. Il Principe è la rappresentazione simbolica dell'altro, del mondo esterno, solo relazionandosi positivamente con l'altro ci si risveglia dal pericolo di dormire per sempre nella vita. La morale della favola? Nonostante tutti i tentativi da parte dei genitori di impedire il risveglio sessuale dei loro figli, ciò avverrà comunque (Il Re non è riuscito a impedire la realizzazione della maledizione nonostante avesse bandito tutti i fusi dal regno). Ovviamente questa non è l'unica interpretazione possibile ma io mi fermerò ad essa. Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta Bibliografia: "L'altra metà delle fiabe" di Antonella Castello
Il film “Toc Toc” segue le vicende di sei personaggi, ognuno con una differente variante del DOC (disturbo ossessivo compulsivo). I pazienti si ritrovano tutti nello studio di un famoso psicoterapeuta che, a causa di un disguido tecnico, ha dato appuntamento a tutti alla stessa ora. I pazienti attendono l’arrivo del dottore che però è in ritardo… così iniziano a conoscersi e confrontare i propri problemi iniziando a fare una specie di terapia di gruppo. Alla fine si scoprirà che il terapeuta è tra loro (idea geniale!).
Tra i pazienti c’è:
Il film è veramente simpatico e strappa più di una risata allo spettatore ma spesso è con l’ironia che si dice la verità e questo film è anche in grado di far capire quanto il DOC sia un disturbo in grado di rovinare la vita a una persona... può portare alla solitudine e all’isolamento. Vediamo nello specifico il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Con l’introduzione del DSM 5 il disturbo ossessivo-compulsivo non si colloca più tra i disturbi d’ansia, ma viene individuato come entità nosologica autonoma insieme ad altri disturbi ad esso correlati:
Per poter effettuare diagnosi di DOC è necessario soddisfare i seguenti criteri: Presenza di Ossessioni e/o Compulsioni. Le ossessioni sono definite da pensieri ricorrenti e persistenti o immagini che vengono vissuti, nel corso del disturbo, come intrusivi e indesiderati e che nella maggior parte degli individui causano ansia o disagio marcati; l’individuo tenta di ignorare o sopprimere tali pensieri o immagini, tenta di neutralizzarli con altri pensieri o azioni (es. eseguendo una compulsione). Le compulsioni sono definite da comportamenti ripetitivi (lavarsi le mani, riordinare, controllare) o azioni mentali (pregare, contare, ripetere parole mentalmente) che la persona si sente obbligata ad eseguire in risposta ad un'ossessione o secondo regole che devono essere applicate rigidamente; i comportamenti o le azioni mentali sono volti a prevenire o ridurre l'ansia o disagio, o a prevenire alcuni eventi o situazioni temuti; tuttavia, questi comportamenti o azioni mentali non sono collegati in modo realistico con ciò che sono designati a neutralizzare o prevenire, oppure sono chiaramente eccessivi. Inoltre le ossessioni o le compulsioni implicano un dispendio di tempo (es. più di 1 ora al giorno) o causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. In conclusione molte persone hanno in qualche misura dei comportamenti ossessivi, come controllare e mettere in ordine, che però non interferiscono particolarmente con la loro vita, nel momento in cui il disturbo raggiunge livelli più gravi, diventa invasivo e/o invalidante allora è bene chiedere l’aiuto di un professionista. Quale terapia? Per questo disturbo la terapia più indicata è di tipo cognitivo comportamentale. Nelle manifestazioni del disturbo con una più grave interferenza funzionale l’associazione ad una terapia farmacologica può aiutare a contenere il quadro clinico. Anche la terapia di gruppo può essere efficace (non condotta come nel film! =D) Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta
Bundy: Fascino criminale” non è il solito film che presenta e mostra la storia di un serial killer a partire dalla sua nascita fino agli spietati omicidi commessi, come dice il regista Joe Berlinger:
«Questo film mi ha permesso di sovvertire il genere sui serial killer e di modificarlo un po'. Non è la tipica situazione con l'escalation degli omicidi e la polizia che mette insieme i pezzi, scena del crimine dopo scene del crimine. Il nostro film sta dalla parte della compagna di Bundy, che credeva nella sua innocenza perché per lei era un fidanzato meraviglioso, affascinante e sempre distinto». Per sua stessa ammissione, nel film Berlinger ha scelto di non mostrare le atrocità e gli omicidi di Bundy (37 e tutti commessi ai danni di giovani donne), per concentrarsi invece sul punto di vista di chi gli viveva accanto e lo amava. Il film racconta del primo incontro tra Ted (Zac Efron) e Liz (Lily Collins), di come i due si innamorano e di come Ted sia in grado di essere da un lato un perfetto studente di legge e tenero compagno, dall’altro uno spietato serial killer. Ted è dotato di una mente brillante e di un carisma particolare tanto che, nel corso dei vari processi trasmessi al pubblico mediatico, riesce a conquistare numerose fan e arriva ad assumere il ruolo di avvocato di se stesso. Nonostante Ted si sia sempre dichiarato innocente viene condannato alla pena di morte il 24 Gennaio 1989. Alla fine del film c’è una toccante scena dove Liz va a trovare Ted in carcere per l’ultima volta, è esausta, non ce la fa più e gli dice più volte: “Ted devi liberarmi", a questo punto lui confessa le sue atrocità. Chi è Ted? E perché è diventato un serial killer? Theodore Robert Boundy nasce il 24 Novembre 1946 con il nome di “Theodore Robert Cowell”. La madre intende dare il bambino in adozione, per non dare scandalo con un figlio nato al di fuori del matrimonio. Subito dopo averlo abbandonato, però, si pente della decisione e torna indietro per riprenderlo con sé. Sceglie di far credere a tutti che Theodore è figlio dei suoi genitori, dai quali torna a vivere a Philadelphia. Per gli estranei la madre è la sorella maggiore. Ted adora suo “padre” Sam, si identifica con lui e lo rispetta. Dai racconti dello stesso Ted sembra che la sua infanzia sia stata felice, dai racconti di altre persone sembra invece che Sam fosse un tiranno, uomo violento sia con le persone che con gli animali. La moglie soffriva di una grave depressione. Quando Ted ha 3 anni accade un episodio molto significativo per comprendere quali sono le sue inclinazioni comportamentali: una notte, la zia allora 15enne, si sveglia improvvisamente e vede una serie di coltelli che la circondano, posati sul letto. Davanti a lei c’è Ted che la fissa con un ghigno sul volto. Gli impulsi criminali di Bundy non tardano comunque a manifestarsi più apertamente: fu accusato di spiare donne dalle finestre e di rubare vestiario nei negozi. Man mano che Ted cresce diventa difficile nascondergli la verità e così si trasferisce con la sua vera madre. La donna finge di essere una vedova e cambia il cognome di Ted in “Nelson”. Trova lavoro come segretaria e incontra il suo nuovo marito che di cognome faceva “Bondy”. Così, all’età di 5 anni, Ted ha un nuovo patrigno e un nuovo cognome. Ted disprezza il patrigno per la sua scarsa istruzione e intelligenza. Quando Ted inizia ad andare a scuola emerge tutto il suo acume ma diventano evidenti anche i suoi atteggiamenti violenti. I compagni lo ricordano come un bambino schivo ma che se veniva provocato poteva esplodere con una ferocia spaventosa. Ted era un ragazzo attraente, ben vestito, molto educato pur essendo timido e introverso. Per quanto riguarda le pulsioni sessuali, rimase sempre un po’ indietro rispetto ai suoi coetanei: alle superiori ha avuto una sola fidanzata. Nel 1967, incontra una ragazza di nome Stephanie, studentessa universitaria, che diventa subito la cosa più importante della sua vita. La storia dura poco e alla fine la ragazza lo lascia perché era convinta che non sarebbe mai diventato un uomo di successo. Stephanie rappresenta la prima esperienza sessuale per Ted. Nel 1969 Ted rimane fortemente segnato dal ritrovamento del suo certificato di nascita e scopre di essere registrato come figlio illegittimo. Questa parola rimarrà stampata nella sua mente per tutta la vita. Ted non riuscirà mai a scoprire altre informazioni sul padre e, più volte, esprimerà la propria rabbia nei confronti della madre, che riteneva colpevole di non avergli mai parlato con sincerità. Dopo il liceo si iscrive all’università e si laurea in psicologia per poi continuare con gli studi in legge. Prende anche l’abitudine di leggere molte riviste pornografiche e, una volta arrestato, si lamenterà che è stata colpa della pornografia se ha iniziato a uccidere. In quel periodo Ted conosce Meg Anders (Liz nel film), una divorziata che lavora come segretaria. I due cominciano a frequentarsi e Meg si innamora di lui: Ted la tratta con gentilezza e ricopre il ruolo di figura paterna per la bambina nata dal matrimonio della donna. Ma, nonostante la loro relazione, Ted non intende rinunciare a Stephanie, con la quale si tenne in contatto tramite lettere e telefonate. Successivamente i due si rincontrano ma, a quel punto, sarà Teda rifiutare la donna avendo così la sua vendetta. Stephanie rimarrà comunque un'ossessione per lui e, infatti, nel 1974 ebbe inizio la spirale di morte. Le sue vittime sono ragazze, prevalentemente studentesse universitarie. Le vittime hanno diverse caratteristiche in comune: intelligenti, magre, attraenti, di carnagione chiara e con i capelli lunghi con la riga in mezzo (come Stephanie); tutte le ragazze provenivano da una famiglia stabile e affettuosa e ognuna di loro aveva un fidanzato al momento della scomparsa. L’obiettivo di Ted è quello di esercitare il controllo totale sulle vittime e, al perché di questo atteggiamento, troviamo una risposta nella sua storia: attraverso il controllo Ted riscatta l’affronto subito da Stephanie, non solo non viene più abbandonato, ma si comporta come un Dio onnipotente capace di disporre a suo piacimento delle persone (tipico della Psicopatia). L’abbandono della fidanzata riattiva anche l’abbandono primario subito dalla madre. Bundy dedica molto tempo allo studio della vittima per poi catturarla nel momento in cui questa è più vulnerabile (malata, lasciata dal fidanzato…). I metodi usati per avvicinarsi alla vittima sono 2: il primo consiste nel mostrarsi con una fasciatura al braccio e chiedere a una ragazza di aiutarlo a portare un bagaglio pesante fino alla propria macchina; il secondo consiste nell’avvicinarsi a una ragazza, travestito da poliziotto, e nel chiederle di seguirlo alla centrale. Il terreno di caccia preferito da Ted è il campus universitario. Una volta attirata la vittima in trappola, la stordiva colpendola alla testa con un piedi di porco, poi la ammanettava e la trasportava con la macchina in un luogo isolato. Quando la vittima riprendeva conoscenza, Ted si divertiva a fingere di averla salvata da un aggressore sconosciuto: vedere lo stupore e la confusione sul volto della ragazza lo divertiva molto. Prima di uccidere, spesso usava la ragazza per animare le sue perversioni: la faceva indossare un certo tipo di abbigliamento, la faceva posare in atti pornografici… a volte scattava fotografie ricordo. Spesso Ted stuprava le vittime e poi le strangolava. Subito dopo l’uccisione decapitava i corpi con un’accetta e portava con sé questi macabri feticci per giorni. Successivamente, era solito ritornare nel luogo del delitto per avere rapporti sessuali con i cadaveri delle donne in decomposizione. E’ sicuramente difficile capire la psicologia di una mente così complessa. Spesso i serial killer soffrono di psicopatia, un disturbo di personalità definito da una costellazione di caratteristiche interpersonali, affettive e comportamentali. I sintomi chiave della psicopatia possono essere distinti in 2 grandi aree: - sintomi emotivi/interpersonali (soggetto loquace e superficiale; egocentrico e grandioso; assenza di rimorso o colpa; mancanza di empatia; falsità e uso della manipolazione; affettività superficiale). - sintomi di devianza (impulsività; deficit del controllo comportamentale; bisogno di eccitazione; mancanza di responsabilità; problematiche comportamentali in età infantile; comportamenti antisociali in età adulta). In Ted si riscontrano molte di queste caratteristiche. “Io sono il più grande figlio di puttana a sangue freddo che abbiate mai incontrato”, con queste parole Ted dipinse se stesso alla polizia dopo un arresto. Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta Materiale in parte tratto da: “I serial Killer” di Vincenzo Maria Mastronardi e Ruben De Luca.
La morte di una persona cara è uno degli eventi più terribili e traumatici della vita, soprattutto se questa avviene prematuramente, per malattia, per incidenti…
Ognuno affronta la perdita a suo modo: c’è chi attraversa le diverse fasi di elaborazione del lutto e arriva all’accettazione e chi rimane incastrato nel dolore… è proprio quello che accade al protagonista del film “Collateral Beauty”. Howard (Will Smith) è un dirigente pubblicitario di successo e la sua vita trascorre serena fino alla morte prematura della figlia di soli 6 anni, da allora l’uomo non riesce più a vivere, si chiude in se stesso, non ha più interessi e sfoga tutta la sua rabbia in tre lettere che indirizza a Amore, Tempo e Morte, nel tentativo di trovare una risposta al suo dolore. Nel frattempo l’azienda di Howard sta attraversando una forte crisi e a questo punto intervengono i suoi amici e collaboratori: Whit (Edward Norton), Claire (Kate Winslet) e Simon (Michael Peña). Nel disperato tentativo di riportare Howard alla realtà decidono di ingaggiare tre attori per impersonare proprio quelle astrazioni che ormai ossessionano la vita dell’amico. Amore, Tempo e Morte accompagnano Howard in un percorso che è tutto interiore, nella mente e nel cuore di un uomo che ha bisogno di ricominciare a vivere e specialmente di accettare la realtà della vita. Non voglio dire di più per non rovinarvi il film che nasconde segreti tutti da scoprire. “Just be sure you notice the collateral beauty” questa frase racchiude il messaggio fondamentale del film: assicurati di notare la bellezza collaterale. Parole significative per chi, come il protagonista, ha subito un lutto, un trauma importante ma che tutti noi dovremmo tenere a mente ogni singolo giorno. Vorrei prendere spunto dal film per parlare del lutto e della sua elaborazione. Elisabeth Kübler-Ross (1926-2004) ha svolto un lavoro pionieristico nel campo dell'assistenza ai malati terminali e nella ricerca sulla morte e il morire. La studiosa passò molto del suo tempo ad intervistare più di duecento pazienti malati terminali di cancro di mezza età, che quindi, affrontavano questo evento in modo improvviso ed inaspettato e questo le ha consentito di fare scoperte che sono in seguito state confermate da altri ricercatori e che sono ormai patrimonio acquisito di questo campo di studio. La descrizione del modello a cinque fasi del dolore rappresenta sicuramente la parte più rilevante del pensiero di Elisabeth Kübler-Ross. Non si tratta di una teoria, quanto di uno strumento che tenta di descrivere e capire le dinamiche mentali più frequenti della persona a cui è stata diagnosticata una malattia terminale, ma anche le dinamiche di chi subisce un lutto o una perdita. Da sottolineare che si tratta di un modello a fasi, non a stadi, per cui la tempistica con cui queste possono presentarsi può variare da soggetto a soggetto. Infine ogni stadio è ripercorribile più volte, poiché il suo superamento non necessariamente è definitivo.
In conclusione, è normale provare sentimenti molto intensi in seguito alla perdita di una persona amata e attraversare un periodo di smarrimento, l’importante è non rimanere bloccati nella sofferenza. La condivisione dei vissuti personali collegati ad un lutto subito, è spesso ostacolata da un atteggiamento sociale che considera disdicevole mostrare di provare certi sentimenti, pensieri e scelte personali. Quindi a volte la persona si vergogna di confidarsi con gli altri e allora può essere utile chiedere aiuto ad uno psicologo, che può affiancare la persona per affrontare emozioni, pensieri e reazioni comportamentali di disagio alla ricerca di un nuovo equilibrio. Tutto ciò vale anche per la perdita di un amico animale che ha lo stesso identico valore di una persona cara. Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta
Ben (Viggo Mortensen) vive con i suoi sei figli nelle foreste dell'America del Nord, rifiutando il contatto con la società moderna dei consumi.
Ogni ragazzo ha un nome particolare, scelto appositamente dai genitori per far sì che fosse l’unico al mondo. La famiglia abita in un tepee ed è completamente autonoma infatti hanno organizzato un orto per coltivare le verdure e la carne viene procurata tramite la caccia. I ragazzi sono stati preparati dal padre ad affrontare ogni difficoltà che si possa trovare in natura e vengono sottoposti giornalmente ad un allenamento degno dei migliori atleti professionisti. Nel tempo che resta ognuno dei figli si dedica allo studio, secondo un serissimo programma di home schooling (studio a casa). La famiglia trascorre così le sue giornate fino alla terribile notizia della morte della mamma. La madre decide di togliersi la vita dopo una lunga malattia mentale. Il destino li costringe ad intraprendere un viaggio nel mondo reale: viaggio che obbligherà Ben a mettere in discussione la sua idea educativa.
Questo film permette di fare importanti riflessioni rispetto allo stile educativo genitoriale e al ruolo della figura paterna. Ben è un padre che ha deciso di impostare una regola fondamentale nell’educazione dei propri figli: dice sempre loro la verità. Ha deciso che non mentirà mai loro, non importa quanto sia controverso l’argomento o a quante ulteriori domande porterà la sua risposta. Parla ai figli della malattia e della morte della madre senza omettere nulla, parla anche apertamente del sesso e non ci sono tabù rispetto alle proprie nudità. Ben non rifiuta mai le emozioni dei figli e sollecita i ragazzi a parlare di quello che pensano e provano, indipendentemente dall’età o dal genere del figlio. Viene da chiedersi se questa sia una buona condotta educativa. Penso che questo stile educativo sia fortemente criticabile perché i rischi per i figli sono molteplici e di varia natura. Non bisogna mai mentire ai figli ma credo anche che alcune informazioni andrebbero “moderate” in base all’età perché potrebbero rappresentare un trauma per una mente non in grado di elaborarle. Ricordate che la fantasia dei bambini è sempre attiva e può creare confusione o portarli a creare convinzioni del tutto infondate (es: senso di colpa) che si porteranno dietro per il resto della vita. Credo che sia fondamentale parlare con i figli il più possibile, condividere e favorire l’espressione delle emozioni. Soffermandoci nello specifico sul ruolo del padre, esso è fondamentale nel percorso di crescita di un bambino:
Nel film, i figli di Ben conoscono il mondo esterno solo attraverso quello che hanno appreso sui libri, non vivono il mondo di cui parlano, non hanno la possibilità di identificarsi con quello che criticano e rifuggono. Il padre si distanzia e distanzia la sua famiglia dal mondo reale. L’ultima parte del film è quella più importante, dove Ben attua un cambiamento… Nessuno pretende che siate dei genitori perfetti, non esistono genitori perfetti, l’importante è riflettere sugli errori commessi e parlare sempre con i figli, entrando in profondo contatto emotivo con loro e, cosa ancora più importante, avere una mente aperta e non aver paura di mettersi in discussione. Cercate di capire cosa non va nel rapporto con i vostri figli e siate disposti a cambiare… solo così si può diventare “Captain Fantastic”. Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta
Oggi vorrei parlarvi di un film che mi è stato suggerito da una coppia di genitori che ho seguito per un po’ di tempo. Un giorno mi raccontano in colloquio che hanno visto il film “Wonder” con loro figlio e che si sono tutti molto emozionati, soprattutto il bambino che alla fine ha esclamato: “Io sono come lui!”. Questo bambino ha solo un DSA, un disturbo degli apprendimenti, e non un difetto fisico visibile, ma quella frase fa capire come ogni diversità può essere vissuta come un difetto, invece deve essere la nostra peculiarità, quello che ci rende speciali e forti.
Il film parla di bullismo, un fenomeno vile e preoccupante, ma mostra anche come esista sempre una strada percorribile e giusta: la gentilezza! August (Jacob Tremblay), detto Auggie, è un ragazzino nato con una rara alterazione genetica, la sindrome di Treacher-Collin, che lo ha costretto a sottoporsi a molti interventi chirurgici e a vivere un’infanzia difficile e lontana dai banchi di scuola. I genitori di Auggie, infatti, hanno preferito farlo studiare a casa, almeno fino all’inizio delle medie quando Auggie entra nel mondo reale... Il film mostra le storie dei vari personaggi che circondano Auggie permettendo di vedere la prospettiva di tutti e di indossare diversi panni, possiamo così riflettere su tanti temi importanti: la diversità, l’amicizia, la vita di una sorella “normale”, la capacità di parlare a un figlio, l’accettazione di sé e degli altri, la perdita… Questo è un film che commuove, se decidete di vederlo preparate i fazzolettini perché vi serviranno =) Cos’è il bullismo? Il termine bullismo deriva dalla parola inglese “bullying” e viene definito come un’oppressione, psicologica o fisica, ripetuta e continuata nel tempo, perpetuata da una persona o da un gruppo di persone, più potente nei confronti di un’altra persona percepita come più debole (Farrington, 1993). Quindi, per parlare di bullismo deve esserci: intenzionalità, persistenza nel tempo, asimmetria nella relazione. Non voglio entrare troppo nello specifico del fenomeno, preferisco dare alcune indicazione sul “cosa fare”. Per i genitori:
Alcuni indizi che possono aiutare un genitore a capire che il proprio figlio è vittima di bullismo:
Alcuni indizi che possono aiutare un genitore a capire che il proprio figlio è autore di bullismo:
Per i ragazzi: Se sei vittima di bullismo il primo passo è parlarne con qualcuno, un amico, mamma e/o papà, un insegnante, lo psicologo della scuola… Il bullismo può fare davvero male e nessuno ha diritto di farti stare così male! Ed è bene che tutto noi ricordiamo che… un gesto gentile non costa nulla ma ha un potere grandissimo! Per maggiori informazioni potete visitare http://www.azzurro.it/sites/default/files/Materiali/InfoConsigli/Pubblicazioni%20Gen.Ins.Edu/quaderno_bullismo.pdf link dal quale ho preso alcuni spunti. Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta Jasmine (Cate Blanchett), è una donna elegante dell'alta società newyorchese che, dopo il tracollo del ricco e disonesto marito, Hal (Alec Baldwin), si trasferisce nella modesta abitazione della sorella Ginger (Sally Hawkins) a San Francisco. Jasmine si trova in uno stato psicologico fragile, è confusa e dipendente da antidepressivi e ansiolitici. Nonostante non abbia più nulla la donna è in grado di mantenere il suo aspetto elegante e il suo charme, nel tentativo di rifarsi una vita. Analisi del funzionamento psicologico di Jasmine: Il funzionamento di Jasmine sembra essere caratterizzato da un disturbo narcisistico di personalità. È una donna che vuole essere al centro dell’attenzione e che si aspetta di essere perfetta sotto ogni punto di vista (aspetto, performance). Si sente privilegiata, si aspetta un trattamento preferenziale e tende ad essere arrogante, superba, difficilmente si prova simpatia nello starle accanto. Emergono anche alcuni tratti istrionici importanti, infatti è una donna che tende ad usare il suo aspetto fisico per non passare inosservata e attirare l’attenzione. Nel complesso le sue credenze ed aspettative sembrano clichè o stereotipi, come se fossero uscite da un libro di fiabe o da un film. E’ una persona un po’ “naif” che tende a idealizzare lo status sociale dei “ricchi” denigrando invece il mondo dei “poveri”, ricercando il principe azzurro dell’alta borghesia che la salverà e ritenendo di poter frequentare solo persone che hanno uno status sociale elevato. Emergono anche alcuni lievi tratti antisociali, in particolare non sembra preoccuparsi delle conseguenze delle proprie azioni, ha poca empatia, tende a manipolare le emozioni degli altri per ottenere ciò che vuole e sembra inoltre non mostrare rimorso per i danni o le ferite arrecate ad altre persone. Inoltre, può arrivare a mentire spudoratamente pur di ottenere ciò che vuole. È una persona tendenzialmente ansiosa e ha attacchi di panico accompagnati da forte risposte fisiologiche (soprattutto mal di testa). In particolare, quando è sotto stress tende ad entrare in stati alterati di coscienza o va incontro a veri e propri stati dissociativi nei quali si sente strana e ha comportamenti che risultano bizzarri o inadeguati allo sguardo esterno. Jasmine non è in grado di gestire le emozioni forti, le quali tendono a farla diventare irrazionale al punto da mostrare un notevole declino del proprio livello di funzionamento mentale (inizia a parlare da sola rivivendo il passato). Riassumendo, Il film mostra come Jasmine provi a ricostruire la sua identità e la sua vita in seguito a un crollo narcisistico importante. Il suo mondo si è sgretolato e lei cerca di ricostruire il suo “castello” fantastico e ideale. Ci riuscirà? Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta "Essere sordomuti non è un handicap, è un’identità” - Rodolphe Bélier. Un film in cui la diversità diventa integrazione e fonte di conoscenza. La famiglia Bélier è composta dal signor Rodolphe Bélier (Francois Damien), la moglie Gigi (Karin Viard), la figlia sedicenne Paula (Louane Emera) e il figlio minore Quentin (Luca Gelberg). Si tratta di una famiglia “particolare” in quanto sono tutti sordomuti tranne Paula, l’unica ad essere dotata della capacità di sentire e parlare e che comunica con i suoi cari attraverso la lingua dei segni. Paula svolge anche il fondamentale ruolo di interprete e di mediatore tra la famiglia e il resto del paese. È, infatti, lei ad aiutare i genitori a vendere al mercato i formaggi che loro stessi producono nella loro fattoria/azienda. Paula è un'adolescente e "prova" a vivere tutte le vicissitudini della sua età, anche se dedica gran parte delle sue giornate alla famiglia. A scuola decide di iscriversi a un corso di canto per seguire il ragazzo di cui è segretamente infatuata, Gabriel (Ilian Bergala). Piano piano, superando la timidezza e un conflitto interiore, Paula scoprirà di avere una bellissima voce. L’insegnante di canto, notando il suo talento, decide di offrire a Paula la possibilità di partecipare ai provini per Radio France, a Parigi. La ragazza non ha il coraggio di dirlo ai suoi genitori, anche perchè il padre intende candidarsi a sindaco del loro piccolo paese e la figlia è fondamentale nel suo ruolo di interprete. Quando finalmente riesce a comunicare le proprie intenzioni ai suoi genitori, questi le rinfacciano di preferire la carriera e di volerli abbandonare. Arriva il concerto di fine anno: Paula e Gabriel duettano e ottengono un successo straordinario. Però purtroppo i Bélier non riescono a sentire e quindi capire il perché dell’entusiasmo e della commozione che vedono intorno a loro. Questa è forse una delle scene più significative del film, perché l’audio si interrompe bruscamente e lascia spazio al silenzio. Il tutto per rendere l’idea di come i genitori di Paula percepiscano il mondo intorno a loro. Questa esperienza scatenerà in Gigi e Rodolphe una strana consapevolezza… Non svelo il finale, ma garantisco che vi è una scena molto commovente in cui i due mondi troveranno un punto d’incontro. Il film tocca moltissimi temi importanti: la disabilità e non è facile parlare di questo argomento, soprattutto all’interno di un film; il pregiudizio, l’accettazione o non accettazione dei propri limiti, la genitorialità; l’adolescenza che apre molti altri sotto capitoli, tra cui la sessualità, la ricerca della propria identità e il processo di separazione-individuazione. Per ognuna di queste tematiche ci sarebbe molto da dire e potremmo farci 1000 domande… allora preferisco non esplorare in particolare nessuno di questi argomenti certa che la visione del film sia, già di per sé, fonte di riflessioni personali importanti. Dott.ssa Annalisa Ciceri Psicologa e Psicoterapeuta
Casey (Anya Taylor-Joy) è un’adolescente introversa e problematica, tenuta in disparte dalle compagne di scuola più popolari. Un giorno viene invitata per pietà a una festa e, non avendo altro modo di tornare a casa, accetta un passaggio in auto dal signor Benoit, padre di Claire (Haley Lu Richardson). In macchina, oltre a Casey e Claire, c’è anche Marcia (Jessica Sula), grande amica di quest’ultima.
Mentre le due ragazze sono impegnate a guardare il loro smartphone, non si accorgono che la persona che si siede al volante non è il padre di Claire, bensì uno sconosciuto che con uno spray al cloroformio stordisce le tre ragazze e le sequestra, allontanandosi dalla zona. Le tre si risvegliano scoprendo di essere imprigionate all’interno di una cella in un sotterraneo. Il loro sequestratore è Kevin Wendell Crumb (James McAvoy). Passano i giorni e, fra vari tentativi di fuga, sedute di Kevin dalla sua psichiatra, la dott.ssa Fletcher (Betty Buckley) e flashback che riguardano il passato di Casey, scopriamo che Kevin è ancora più pericoloso di quel che già sembrava essere. Egli soffre di una forma particolarmente grave di disturbo dissociativo della personalità e la sua mente ospita una serie di ventiquattro "persone" diverse fra loro, fra le quali Dennis, Hedwig, Barry, Jade, Patricia e Orwell. Le varie personalità hanno caratteri diversi, ma le più minacciose hanno organizzato un piano per rapire le ragazze e sono riuscite a imporsi sulle altre. Il tutto attendendo l’arrivo della personalità più malvagia e temibile, The Beast. La dott.ssa Fletcher coglie che qualcosa non va in Kevin e, suo malgrado, scoprirà di aver ragione... Cosa accadrà quando arriverà La Bestia? Questo film ha destato non poche critiche tra gli esperti dei disturbi mentali, in particolare una psicologa ha scritto una lettera in cui spiega al regista Shyamalan perché il suo film alimenta stereotipi e problemi. La dott.ssa in questione ha voluto spiegare: "Essendo una psicologa esperta sull'argomento e una persona che soffre di multiple personalità, penso che sia il mio dovere spiegare alcuni fatti: le persone che soffrono di un disturbo dissociativo non sono, in generale, raccapriccianti o ingannevoli, non ci nascondiamo in vicoli oscuri. Non siamo rapitori che rinchiudono teenager in cantina, e sicuramente non siamo assassini. Invece siamo mariti e mogli, padri e madri, amici e vicini di casa che soffrono in silenzio di una condizione dolorosa, paurosa e spesso debilitante in cui il concetto di chi siamo è diviso in parti frammentate. La nostra condizione è causata da una storia di abusi gravi e ripetuti vissuti da bambini. In verità siamo vittime di una violenza impossibile da immaginare. Avere più personalità, come la depressione, lo stress post traumatico e i tentativi di suicidarsi sono solo sintomi di infanzie terribili". Proviamo a fare chiarezza sul Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID). Alla base del disturbo opera il meccanismo della dissociazione ossia un meccanismo di difesa con cui alcuni elementi dei processi psichici rimangono "disconnessi" o separati dal restante sistema psicologico dell'individuo. Secondo i criteri del DSM V, il disturbo dissociativo dell’identità è caratterizzato da:
NB: Il soggetto affetto da DID può essere o non essere consapevole delle diverse identità. Talvolta può riferire di udire “conversazioni interiori” tra gli stati di personalità o voci delle altre identità che si rivolgono a lui o ne commentano il comportamento. In generale, l’interscambio tra gli stati del sé e la (relativa) mancanza di consapevolezza del comportamento delle altre identità rende caotica e confusa la vita delle persone che soffrono di questo disturbo, conducendo ad un disagio significativo. Inoltre, nei soggetti affetti da DID sono comuni atti autolesivi, tentativi di suicidio, abuso di sostanze e flashback degli eventi traumatici. Al disturbo si accompagnano spesso altri problemi psicopatologici, come depressione, ansia (attacchi di panico), sintomi somatoformi, disturbi alimentari, disturbi del sonno e disfunzioni sessuali (DSM 5, APA 2013). Il Disturbo Dissociativo dell’Identità è una seria patologia psichica, che si pensa rappresenti il risultato di esperienze di violenza cronica ed estrema subite dalla persona durante l’infanzia. Non si tratta quindi di un fenomeno oscuro e soprannaturale, ma di una grave e dolorosa condizione di sofferenza psichica, di un trauma risalente all’infanzia. Per un bambino vittima di abuso la dissociazione diventa un modo per ignorare, dimenticare la violenza subita. La dissociazione permette di compartimentare l’angoscia lontano da se stesso, portandolo a credere di non stare sperimentando l’abuso, che sta invece capitando “a qualcun altro”. Così, mentre il corpo subisce l’abuso, un bambino può fluttuare fino al soffitto e guardare ciò che sta capitando a “un’altra persona” (cioè ad una parte dissociata del sé, ad un’altra identità) (Smith, 2007). La dissociazione è l’unico modo che il bambino ha trovato per sopravvivere in quell’esperienza terrificante. Alcune precisazioni:
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